L'uomo, furtivo, sgattaiolò, senza far rumore, dentro l'oscurità della mia cameretta.
Avanzò lentamente verso di me fermandosi accanto al mio lettino.
Adagio si chinò sul mio sorriso spogliandolo per sempre della sua innocenza.
Mordendo e succhiando addentò la mia bocca con voracità.
Sgomenta avvertii la sua mano viscida insinuarsi sotto il mio pigiamino, lo sentii ansimare mentre con avidità s'impossessava del mio acerbo seno.
Mi divincolai e in preda a una paura agghiacciante udii la sua voce mielosa implorare:
"Ferma bambolina, ferma! Ti farò divertire, sai...ho perso la testa per te!"
Un terrore senza fine paralizzò tutto il mio essere.
Più non ricordo di quella notte orribile dei miei undici anni, se non la calda pozza di urina in cui giacevo al mio risveglio.
Per quattro lunghi e tormentosi anni fui un animale in fuga, ferito e braccato, sempre in cerca di una tana sicura in cui rifugiarmi.
Guardinga e sospettosa divenni la sentinella di me stessa.
Lo adoravo, era per me il padre che desideravo fin dalla mia più tenera età e, per questo, oggetto, da parte mia, di infantili e innocenti tentativi di seduzione.
Fu il mio incondizionato bisogno d'affetto di "bambina alla deriva" a rendermi facile preda, nonché complice, del mio aguzzino.
Il legame con il mio carnefice era forte tanto quanto l'ambivalenza che provavo nei suoi confronti.
"Orco o Principe Azzurro?"
Paura, impotenza, ansia, angoscia, schifo, delusione e sensi di colpa si contrapponevano a compiacimento e soddisfazione dentro di me.
Ero troppo piccola e troppo sola per odiarlo e rinunciare al desiderio di sentirmi amata.
La contentezza di sentirmi cercata, desiderata,ammirata, potente e più interessante, ai suoi occhi, della sua stessa moglie (per la quale nutrivo un intenso amore filiale) m'induceva a convincermi che io fraintendevo, volendo a tutti i costi credere che ciò che stava accadendo era frutto del suo affetto per me.
A causa dei miei vissuti mi addossai tutta la colpa dell'atroce misfatto.
Incominciai a provare disprezzo per me, mi sentivo sporca, peccaminosa e soprattutto la degna figlia di mia madre; l'avvenente donna "rovina famiglie", l'adultera, che per sua colpa era stata punita con l'esilio.
Un giudice implacabile si erse nella mia mente inchiodandomi sul banco degli imputati con l'accusa infame di "seduzione".
Mi avvalsi della facoltà di non rispondere.
Un rovente senso di colpa s'affacciò nella mia mente e divenne un tarlo che mi rodeva giorno e notte proteggendomi però, allo stesso tempo e, a mia insaputa, dalle terribili paure inconsce che si agitavano dentro di me: abbandono, separazione, allontanamento, solitudine e, più ancora, dal timore di avere in sorte il medesimo amaro destino che era stato inflitto a mia madre.
Il senso di colpa mi cucì la bocca con il filo della paura.
L'ansia dilagò in me come un fiume in piena e per tamponarla la mia mente m'impose l'ossessiva compulsione di diabolici rituali scaramantici che generarono in me ulteriore malessere e frustrazione, tanto da indurmi a meditare il suicidio.
Lacrime gonfie di depressione rotolarono lungo le mie gote bagnando il sorriso innocente di mia figlia che malinconicamente cullavo tra le mie braccia.
All'improvviso mi riscossi, come da un un lungo lugubre sonno e, mi ribellai a tanta mia sofferenza; giurai a me stessa, per amore di mia figlia, che:
"Le mie origini non sarebbero state né la mia condanna né il mio destino!"
Con indomito coraggio mi affidai a mani esperte e imboccando la strada della salvezza permisi che dal mio disagio interiore nascessero nuovi germogli.
Dalla mia sofferenza, primo tra tutti, sbocciò il fiore della solidarietà, che ancor oggi alimenta la mia voglia di vivere.
L'Araba Fenice
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