"Tuo padre mi puntò una pistola alla tempia..."
Così, a soli sei anni, appresi, con raccapriccio, che fu una minaccia di morte a condurre mia madre all'altare.
In silenzio, ogni giorno, l'ascoltavo raccontarmi la sua sofferenza di figlia di madre depressa e, apertamente, senza limiti, quella della sua vita intima coniugale.
Ella mi legò a sé eleggendomi sua unica confidente e amica fidata.
Nutrivo per lei un amore incondizionato, una totale ammirazione scevra da ogni critica o giudizio.
Mentre la sostenevo e la consolavo, io, morivo dentro, ogni giorno di più, fino ad accarezzare il sogno di salvarla portandola via, lontano da quel marito malvagio, pericoloso, perverso e violento che era mio padre.
Un'idea bizzarra, ma non troppo considerando che io e mia madre condividevamo da tempo immemore il talamo nuziale, mi attraversò la mente convincendomi che, io, ero il vero marito di mia madre.
Ella mi venne incontro, passo dopo passo, in quel cortile del collegio in cui, dopo la sua fuga da casa, mi aveva relegata.
L'accolsi con freddezza.
Udii la sua voce, rotta dai singhiozzi, chiedermi il permesso per andare a convivere con il suo amante.
L'eco di un grido ammutolito rimbombò dentro di me:
"E io?...Io, che fine avrei fatto?... Perché non mi portava con sé?"
Impietrita, annichilita, con un groppo alla gola, pronunciai in un soffio un flebile "no".
Un "no" colmo di umiliazione, vergogna, impotenza e frustrazione
Mi sentii tradita, doppiamente tradita: come figlia e come "marito".
E triste e delusa di me stessa mi resi conto che avevo fallito, che non ero riuscita a portare a termine la mia missione di salvatrice.
Il mio egoismo aveva armato la mia mano e come mio padre avevo puntato una pistola alla tempia di mia madre.
L'amavo e non riuscivo a odiarla!
L'odiavo e non potevo amarla!
Un caos emotivo, un'angoscia insopportabile e una rabbia sorda che implose dentro di me furono di sicuro i primi tasselli del mio futuro disturbo bipolare.
Mia madre tornò a casa.
E io, oppressa dai sensi di colpa e dai rimorsi, appresi che "mi dovevo comportare bene" ed essere ciò che gli altri si aspettavano che io fossi per venire a patti con la paura dell'abbandono.
"Divorziare per me sarebbe stato un grande fallimento..."
A quelle parole di mia madre impallidii e deglutii per non soffocare.
Realizzai subito che ella non aveva mai avuto veramente la reale intenzione di lasciare mio padre. Che cambiare vita era una scelta che non avrebbe mai voluto compiere forse perché, per motivi che ella stessa ignorava, il suo ruolo di vittima le procurava tanti benefici consci e inconsci. Primo tra tutti un sentimento di superiorità nei confronti di mio padre nella conduzione dell'azienda di famiglia, la sua adoratissima figlia.
Io no, io ero solo la sua ancora di salvezza.
Sulle mie esili spalle aveva caricato la responsabilità della sua falsa incertezza spingendomi nelle orride sabbie mobili emotive.
In me restò solo il dolore di non sentirmi amata.
Non nostra la colpa se tu madre anaffettiva e io madre depressa ma di quella ferita emotiva che come un'ombra implacabile si è tramandata attraverso i legami familiari di madre in figlia, di generazione in generazione, fino a noi.
La morte di mia figlia mi dette il coraggio di dire "basta" staccandomi dalle aspettative di mia madre, gettando la maschera dell'assertività per godere della mia autenticità e di "disubbidire", osando finalmente di accontentare me stessa.
L'Araba Fenice
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